MICHELE POLGA meets FABRIZIO BOSSO
Studio Session (Abeat) 2013

01  Boh
02  Fishing On The Carpet
03  Gi
04  8 Bars
05  Burning Field
06  Cream
07  Corner
08  On Green Dolphin Street
09  Cool Blues

Michele Polga – sax
Fabrizio Bosso – trumpet and flugelhorn
Luca Mannutza – piano
Luca Bulgarelli – bass
Tommaso Cappellato – drums

All compositions by Michele Polga except track 8 by B. Kaper and track 9 by F. Bosso

REVIEWS

Ad un ascolto superficiale, spesso capita di etichettare come già sentito un certo disco, che invece, ad un’approfondita analisi, già sentito non è.

Studio Session —quarta eccellente prova discografica da leader del sassofonista Michele Polga—è un progetto che non nasconde di discendere da molta produzione Blue Note anni ’50 (e in minor misura Prestige). Tuttavia non lo si può considerare un epigono di quei progetti, e se pure in parte s’ispira a quelle fonti, è un lavoro niente affatto calligrafico; è anzi un CD pieno di molti elementi peculiari.

L’album non lesina spunti creativi, anzi, è fecondo di originalissimi e persuasivi momenti musicali. C’è intanto un gruppo affiatato—con una sezione ritmica solida, trainante, rilassata e dotata di vigoroso groove—c’è un superbo Fabrizio Bosso, ci sono sette corposi temi scritti dal leader, un blues e un noto standard (“On Green Dolphin Street”), ma soprattutto ci sono belle, efficaci e intense parti solistiche, che più di tutto contribuiscono a rendere apprezzabile il disco.

Degli interventi di Bosso non sono tanto i nitidissimi acuti, o la leggerezza con cui affronta il fraseggiare su tempi anche molto fast (“8Bars”), né gli stupefacenti effetti timbrici wa-wa in “Cool Blues” a dimostrare il valore del fuoriclasse, quanto gli appassionati vibrati, gli entusiasmanti glissandi e le espessive note molto alte su brani più meditativi (come “Fishing on the Carpet” e “Corner”).

Nel suono caldo e insieme forte e incisivo di Polga si scopre un tenorista dalla tecnica impeccabile e ricca di pathos, che sa infondere spessore e ornamento alle improvvisazioni. Come il suo ispiratore, Joe Henderson, Polga possiede il dono della liricità, che emerge soprattutto in brani a tempo medio e lento, riuscendo ad arrucchire l’evidente filiazione dal modello hendersoniano con la costruzione di frasi armoniose e con carezzevoli passaggi melodici.

Per quanto sia stato registrato in studio, di sicuro questo album possiede la freschezza e il carattere di una bella performance live e dimostra quanto per un gruppo sia importante documentare su CD il proprio lavoro solo dopo una serie di concerti. Tale approccio contribuisce a fare di un combo un buon combo e rende la musica una bella esperienza umana, capace di trasmettere empaticamente a chi ascolta la stessa energia profusa nel disco dai musicisti.

Michele Polga meets Fabrizio Bosso”, questa volta in studio, dopo il successo (relativo ai numeri del jazz) del vostro precedente album dal vivo “Live at Panic”. Cos’è cambiato rispetto allo scorso album e come avete vissuto le dinamiche di studio senza perdere energia e spontaneità?

Com’è scritto anche nelle note di copertina, “Live at Panic” (Abeat 2011) è un disco che non ha avuto premeditazione, un concerto riuscito particolarmente bene che abbiamo deciso di pubblicare. “Studio Session”  è invece è un album pensato. Avevo dei brani nuovi, Burning Field in particolare, che avevo scritto appositamente per il quintetto. In studio siamo andati subito dopo una serie di concerti, perciò era ancora viva l’energia di quelle serate. L’atmosfera dello studio è sempre un po’ spiazzante, il fatto che si suoni con le cuffie e in ambienti separati toglie quel senso di comunione umana e sonora che si ha sul palco. Aver registrato a ridosso di una serie di concerti ci ha permesso di percepire ancora quell’energia e di vivere quella giornata di registrazione in maniera più spontanea: tant’è che il blues finale, contenuto nel cd, è anche il pezzo che usavamo nei concerti come bis, e quel giorno è stato fatto più per gioco che con l’intento di inserirlo nel disco. Quindi come per Live at Panic, ho fatto sentire il master a Mario Caccia della Abeat Records… ed ecco il disco!”

Tra le composizioni originali, in gran parte tue oltre a Cool Blues di Fabrizio Bosso, c’è uno standard, On Green Dolphin Street. Come mai hai scelto di registrare proprio quel brano?

On Green Dolphin Street è uno degli standard che suono sempre molto volentieri. È uno dei primi che ho imparato a memoria e la base Aebersold del volume n. 34 “Jam session” suonava da dio, mi divertivo un sacco… Qualche tempo fa ho scritto un arrangiamento, niente di complicato, ma immaginando di suonarlo con il quintetto ho pensato che potesse funzionare bene.

Dal tuo disco emerge un legame molto forte con la tradizione, di cui, come ben dicono le note di copertina di Enrico Rava, ti fai interprete originale. Quali sono i tuoi musicisti di riferimento e in che direzione sta andando la tua personale ricerca artistica?

Come tutti i musicisti ho avuto degli amori. Miles Davis, John Coltrane, Billy Higgins, il primo Bob Berg, quello che suonava con il trio di Cedar Walton e collaborava con la Steeplechase, Wayne Shorter, Ahmad Jamal, Jackie McLean, Carla Bley, la big band di Thad Jones e Mel Lewis… e molti altri: citarli tutti sarebbe un lavoro infinito. Ti posso dire che il sassofonista che ho ascoltato di più è Joe Henderson. Ne possiedo la discografia completa, anche i dischi come sideman, che nel periodo in cui incideva per la Blue Note sono davvero tanti: penso a quelli con Andrew Hill, a The Prisoner di Herbie Hancock, a Bobby Hutcherson, Grant Green, Larry Young, Horace Silver eccetera. Dischi che ho letteralmente consumato. E poi ci sono i dischi per la Milestone, del periodo più “elettrico”, le collaborazioni con Freddie Hubbard, Woody Shaw… Davvero un artista incredibile che mi lascia sbalordito ogni volta che lo ascolto. Riguardo alla mia ricerca artistica, non so bene dove stia andando. Immagino che sia stimolata dalle esperienze che faccio, dagli studi musicali, e prenda spunto dagli ascolti.

E quali sono i tuoi ascolti del momento? Oltre al jazz, quali altri generi musicali o artisti ti ispirano maggiormente?

Credo che New York sia la città dove accadono tante cose e che sia ancora molto feconda per il jazz. Oggi ascolto in prevalenza musicisti della nuova scena musicale, che fanno base a New York. Sia esponenti della corrente definita mainstream o modern-mainstream sia quelli più avant-garde. Della generazione precedente ci sono Joe Lovano, George Garzone, Kenny Werner, Fred Hersch; mentre alla mia generazione appartengono Mark Turner, Kurt Rosenwinkel, Brad Mehldau, Kevin Hays, Chris Cheek, Seamus Blake, Bill Stewart, Jason Moran, Chris Speed, Jim Black, Oscar Noriega, Tony Malaby; più giovani sono Gerald Clayton, Kendrick Scott, Walter Smith III, Dayna Stephens, Aaron Parks, Lage Lund, Taylor Eigsti. Tutti questi mi piacciono sul serio e cerco di recuperarne più materiale possibile. Anche le loro collaborazioni sono molto interessanti e mi portano a conoscere artisti la cui esistenza altrimenti ignorerei. Al di là del jazz ho una passione particolare per Ryuichi Sakamoto, di cui ascolto sempre volentieri i dischi più minimal e le collaborazioni con artisti elettronici come Alva Noto, Christopher Willits, Christian Fennesz.

Che progetti hai in cantiere?

Sto cercando di suonare con il quintetto, vista l’uscita del cd. Con Fabrizio, Luca Mannutza , Luca Bulgarelli e Tommaso Cappellato ormai si è creato un feeling così buono da aggiungere valore alla musica. In tour ci divertiamo davvero tanto. A maggio ho registrato in quartetto alcune mie più recenti composizioni, con Paolo Birro, Stefano Senni e Walter Paoli (la stessa formazione del disco “Clouds Over Me”). Spero che venga presto pubblicato anche questo lavoro, che è diverso rispetto a quello del quintetto. Birro suona anche il Fender Rhodes, poi manipolato da me in post produzione. Non si tratta di musica elettronica ma di un colore aggiunto a un suono ben definito. Anch’io faccio uso di qualche effetto sul sax. Anche dal vivo mi piace lavorare sul suono processato. Con Walter e Stefano, in particolare, ho anche un trio che prova ad essere un po’ più sperimentale e in cui usiamo tutti l’elettronica. Ormai dovremmo essere quasi pronti per registrare un album, anche se il bilanciamento delle sonorità acustiche con quelle elettroniche non è mai così semplice: in agguato c’è sempre il pericolo di perdere il suono jazz nel quale ci identifichiamo. Vedremo cosa succederà… Intanto usciranno due dischi, uno per Caligola, che è un progetto pensato da Marcello Tonolo su musiche di Puccini (con Domenico Santaniello e Massimo Chiarella); e un live in versione digitale per Auand del quartetto Nesso G (con Francesco Bigoni, Danilo Gallo e Tommaso Cappellato).

Quali sogni artistici vorresti realizzare?

Il mio sogno artistico è essere soddisfatto di come suono, ma immagino rimarrà tale! Nel frattempo mi auguro di poter allargare sempre di più le mie collaborazioni con i musicisti che stimo di più o che ancora non conosco. Credo sia il modo migliore per crescere. Ecco, non vorrei mai smettere di crescere.

R Crisafi